La smaterializzazione della stabile organizzazione

La nuova economia digitale, se da un lato ha incentivato la crescita economica di numerosi Paesi abbattendo i confini territoriali, dall’altro ha generato significative difficoltà di inquadramento ai fini fiscali. Ciò ha reso indispensabile il ripensamento dei tradizionali modelli impositivi, ormai inadeguati rispetto ai nuovi scenari digitali. Un esempio di questa trasformazione riguarda il concetto di stabile organizzazione, storicamente legato a un criterio fisico, che oggi attraversa un complicato processo di dematerializzazione.

L’avvento della digital economy ha sicuramente avuto il pregio di migliorare il welfare dei cittadini di molti Paesi ma, di contro, ha scardinato certezze raggiunte con non poche difficoltà soprattutto in ambito fiscale.

Ed in effetti, di fronte al progredire della società, ora più che mai si rende necessario che anche l’apparato normativo rispecchi questa (nuova) frontiera, pena l’aumento dei contenziosi cross border, l’incertezza normativa (peraltro già presente in abbondanza) e i costi atti a sostenere tutto l’apparato amministrativo con conseguenze disastrose anche in tema di recupero d’imposta.

Esempio emblematico è la modifica dei criteri di localizzazione in relazione alla fonte produttiva di reddito per determinare i quali, la stabile organizzazione ha da sempre creato un ottimo collegamento con lo Stato di insediamento. Tuttavia, la nozione che si ha di stabile organizzazione è ancora saldamente ancorata al dato materiale inteso, per citare la lettera dell’art. 162, co. 1, del TUIR, quale “fissità”. Tale dato, peraltro, lo si rinviene anche alla lettura dell’art. 5 del Modello di convenzione contro le doppie imposizioni elaborato dall’OCSE (“Modello OCSE”).

Se, però, tale requisito poteva ben calzare per i modelli imprenditoriali “tradizionali”, di fronte ai moderni modelli di impresa digitale – che si contraddistinguono per un elevato grado di dematerializzazione – risulta ormai obsoleto oltre che di difficile applicazione.

Le conseguenze che discendono dallo scollamento tra economia digitale e legislazione vigente sono, come si sta assistendo con gli accertamenti ai grandi colossi del tech[1], l’aumento delle tecniche elusive ed evasive in ragione della volubilità interpretativa delle menzionate norme.

Per rispondere alle nuove esigenze, a livello internazionale l’OCSE, nell’ambito dell’Action 1 del progetto BEPS, ha specificato la nozione di “significant economic presence[2]”, stabilendo i parametri per delineare più compiutamente quella che sembra essere una prima interpretazione di stabile organizzazione digitale, laddove il flusso reddituale derivante da transazioni digitali con uno Stato non sia sufficiente per determinare in modo chiaro la presenza di una stabile organizzazione (fisica) in quel tal Stato di un’impresa non residente[3]. A titolo esemplificativo, si fa riferimento a un dominio internet locale, ad un sito web tradotto nella lingua locale o alla possibilità per l’utente di utilizzare metodi di pagamento tipici del suo Paese per completare la transazione. In aggiunta, l’OCSE richiama i ricavi conseguiti sulle transazioni digitali effettuate in uno Stato, il numero di contratti conclusi digitalmente con utenti locali ovvero l’entità dei dati digitali raccolti in uno Stato attraverso utenti ivi digitalmente presenti.

Detta impostazione, tuttavia, non è stata recepita dall’art. 5 del Modello OCSE, il quale non è stato modificato per intercettare il processo di smaterializzazione della stabile organizzazione. Nelle Convenzioni tuttora vigenti, infatti, la stabile organizzazione continua ad intendersi come “una sede fissa di affari attraverso la quale l’attività di un’impresa è esercitata in tutto o in parte”.

In modo analogo si è mossa anche l’UE con la proposta di direttiva del Consiglio dell’Unione Europea n. 147/2018 che riprende (dall’OCSE) il concetto di “presenza digitale significativa”, quale elemento rilevante per determinare il nesso imponibile con un determinato ordinamento fiscale. Tale nesso si configura quando un’impresa non residente fornisce servizi digitali dematerializzati, a condizione che, alternativamente, vi siano ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali superiori a 7 milioni di euro, ovvero il numero di utenti “localizzati” nello Stato sia superiore a 100.000 o, infine, il numero di contratti commerciali ivi conclusi sia superiore a 3.000[4]. Tuttavia, allo stato, la proposta è rimasta tale.

Nel sopradescritto contesto stupisce, per una volta positivamente, che un passo avanti sia avvenuto ad opera del legislatore italiano che ha aggiornato la normativa italiana in materia con l’introduzione della lett. f-bis[5] al co. 2 dell’art. 162 del TUIR, che prevede ora nella definizione di stabile organizzazione anche “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso”.

A tale passo in avanti fa da contraltare, purtroppo l’assenza di una definizione chiara e completa dei presupposti oggettivi di questa nuova fattispecie impositiva[6], che obbliga l’interprete nazionale a rifarsi alle indicazioni UE e internazionali, come visto ancora scarne al riguardo.

Pertanto, benché in ambito unionale e domestico sia da apprezzare il tentativo di rivedere il concetto di stabile organizzazione alla luce dello sviluppo della digital economy, tale intervento appare ancora insufficiente e non del tutto congruente con le caratteristiche del mercato digitale odierno.

In definitiva, nel contesto digitale attuale, urge una revisione dei principi impositivi, che dovrebbe essere il risultato di un’azione coordinata tra gli Stati. L’obiettivo di tale revisione dovrebbe essere, da un lato, quello di evitare fenomeni di doppia imposizione e, dall’altro, di assoggettare ad un’equa tassazione le grandi multinazionali operanti nel settore digitale, favorendo così un maggior gettito per le casse nazionali.

A.M. G.A.


[1] Emblematico in tal senso è il “caso” Netflix.

[2] Cfr. OECD (2015), Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy, Action 1 – 2015 Final Report, OECD/G20 BEPS, par. 7.6. (276) che chiarisce la portata interpretativa della “presenza economica significativa” laddove menziona un’impresa che sfrutta la tecnologia digitale per partecipare alla vita economica di un paese in modo regolare e duraturo senza avere una presenza fisica in quel paese.

[3] Cfr. OECD (2015), Addressing the Tax Challenges …cit., par. 7.6.1. e 7.6.2.

[4] Art. 4 proposta di direttiva Consiglio UE: “Tali criteri sono variabili proxy che consentono di determinare l’impronta digitale di un’impresa in una giurisdizione sulla base di determinati indicatori di attività economica. Essi dovrebbero tener conto della dipendenza delle imprese digitali da un’ampia base di utenti, dalla partecipazione degli utenti e dai loro contributi, nonché del valore creato dagli utenti per tali imprese.

[5] L. n. 205/2017 (Legge di Bilancio 2018).

[6] Cfr. Circolare Assonime n. 15/2018 nella parte in cui afferma che la normativa italiana non fornisce una definizione chiara e completa dei presupposti oggettivi di questa nuova fattispecie impositiva. Secondo Assonime, infatti, nel testo normativo non vengono indicati i fattori specifici che determinerebbero la sussistenza della “significativa e continuativa presenza economica”.

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