Società di comodo: una nuova disciplina nella riforma fiscale?

La Legge 9 agosto 2023, n. 111 (Legge delega per la riforma fiscale) stabilisce che il Governo adotti entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi recanti la revisione del sistema tributario, i quali dovranno essere adottati, nel rispetto dei principi costituzionali, nonché del diritto dell’Unione europea e internazionale.

L’articolo 9 della Legge delega prevede la revisione della “disciplina delle società non operative, prevedendo: 1) l’individuazione di nuovi parametri, da aggiornare periodicamente, che consentano di individuare le società senza impresa, tenendo anche conto dei princìpi elaborati, in materia di imposta sul valore aggiunto, dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte di giustizia dell’Unione europea; 2) la determinazione di cause di esclusione che tengano conto, tra l’altro, dell’esistenza di un congruo numero di lavoratori dipendenti e dello svolgimento di attività in settori economici oggetto di specifica regolamentazione normativa”.

Le società c.d. “non operative” (o “di comodo”) sono società che, presuntivamente, sono prive di un’attività economica concreta. Si tratta di soggetti societari che, in virtù di presunzioni legali, vengono considerati come mancanti di quella condizione di “commercialità” sostanziale che giustifica l’applicazione delle norme sul reddito di impresa e sulle detrazioni IVA, e perciò penalizzati dal legislatore[1]. La normativa primaria di riferimento in materia è rappresentata dall’articolo 30 della legge n. 724 del 1994. La condizione di società non operativa scaturisce dalla presenza di un determinato volume di asset patrimoniali, con i quali vengono confrontati i ricavi della società (“test di operatività”): se questi sono troppo bassi rispetto a un valore percentualmente determinato in base ai beni patrimoniali (immobilizzazioni), la società ha l’obbligo di dichiarare un reddito minimo presunto, anch’esso determinato percentualmente in base agli asset.

La disciplina sopradescritta è oramai desueta e molto spesso finisce con il penalizzare le società che esercitano un’effettiva attività d’impresa e che, per una serie di motivazioni, non riescono a raggiungere i ricavi minimi richiesti da coefficienti moltiplicativi (molto datati e non più attuali). L’intenzione è di superare i formalismi propri di tale disciplina introducendo nuovi criteri di valutazione e nel farlo il legislatore dovrà ispirarsi sia a principi interni che comunitari. La riforma dovrebbe evitare le penalizzazioni in capo alle società che svolgono un’effettiva attività d’impresa e non si limitano ad utilizzare la società come “schermo”. Nella Relazione illustrativa è stata delineata con chiarezza la finalità che la riforma intende perseguire, che è quella di “individuare le società senza impresa, riconducendo così la normativa alla sua ratio originaria di contrastare le società che esercitano un’attività di mero godimento e non un’effettiva attività d’impresa”.

Non è perfettamente chiaro quali saranno le direzioni che verranno prese dal legislatore delegato al riguardo. La dottrina ha ad ogni modo ipotizzato alcuni possibili fronti di intervento dei quali nel seguito si fornisce una breve disamina.

Al riguardo, è stato ad esempio ipotizzato di “disattivare” la presunzione assoluta di commercialità delle società commerciali di persone e di quelle di capitali stabilita negli artt. 6, comma 3, e 81 del T.U.I.R.. Ciò al fine di stabilire normativamente le condizioni in presenza delle quali si considera esercitata un’attività di mero godimento e non d’impresa. Si tratterebbe di una soluzione analoga a quella prevista ai fini dell’IVA - la cui disciplina è stata espressamente richiamata sia nella norma di delega che nella Relazione illustrativa. Si ricorda che ai fini dell’IVA le società “di mero godimento” non sono considerate esercitare un’attività d’impresa, anche in deroga alla presunzione assoluta di commercialità riguardante le società di capitali e quelle commerciali di persone (nonché gli enti commerciali). Si ritiene che in sede di attuazione della delega si possa stabilire che l’attività delle società “di mero godimento” non dà luogo a reddito d’impresa e che l’imposizione debba avvenire nei riguardi dei soci, come per le società semplici. In alternativa, potrebbe essere disconosciuta l’inerenza dei costi sostenuti dalla stessa società, trattandosi di un’attività non imprenditoriale consistente nel “godimento privato” dei beni.

In secondo luogo, gli attuali “coefficienti di rendimento presuntivo” potrebbero essere sostituiti da altri parametri, ispirati a quelli previsti ai fini dell’IVA nonché a quelli contenuti nella proposta di Direttiva COM (2021) 565 final, concernente le misure per contrastare “l’uso improprio di società di comodo ai fini fiscali” - c.d. shell companies[2].

Infine, dovrebbe essere disciplinata in maniera più analitica la possibilità di prova contraria, facilitando la dimostrazione di effettività economica dell’impresa nonostante il mancato superamento dei parametri formali. Ciò al fine di circoscrivere l’applicazione della disciplina in esame alle sole realtà di mero godimento, senza penalizzare le società che per ragioni fisiologiche riescono a rispettare determinati parametri.

F.N.


[1] Un regime simile a quello delle società di comodo era applicato alle società in perdita sistematica. Tale disciplina è stata abrogata ad opera dei commi da 36-decies a 36-duodecies dell’articolo 2 del decreto-legge n. 138/2011 ad opera dell’articolo 9 del decreto-legge n. 73 del 2022.

[2] Anche la Corte di cassazione ha fatto riferimento a tale proposta nella ordinanza n. 16472/2022.

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