Con la recentissima sentenza n. 11642/2023 la Corte di Cassazione ha aderito all’orientamento in virtù del quale, ai fini della relativa deducibilità, gli interessi passivi sono sempre deducibili (seppur nei limiti di cui all’art. 96 TUIR) prescindendo da qualsivoglia giudizio di inerenza. In considerazione del fatto che tale impostazione diverge da altri precedenti di legittimità sul tema, la pronuncia costituisce l’occasione per valutare lo stato dell’elaborazione giurisprudenziale sul punto. La vicenda trattata dalla sentenza n. 11642 dello scorso 4 maggio 2023 riguarda un accertamento in materia di IRPEF, IRES ed IVA notificato ad una ditta individuale. Tra le contestazioni avanzate, che avevano cumulativamente determinato un maggiore imponibile in capo al contribuente, vi era il parziale disconoscimento di interessi passivi portati in deduzione. Dopo un primo grado di giudizio sfavorevole per il contribuente, era seguito in grado d’appello sentenza favorevole all’Agenzia delle Entrate. In particolare, la CTR competente aveva confermato l’indeducibilità degli interessi passivi, per mancanza del requisito di inerenza. Impugnata per Cassazione la sentenza della CTR, la Suprema Corte ha invece accolto le ragioni del contribuente. I giudici di legittimità, in forza di un’applicazione letterale dell’art. 109, c. 5 TUIR, hanno statuito che gli interessi passivi sono sempre deducibili, senza necessità di operare alcun giudizio di inerenza: “ciò, in quanto gli interessi passivi sono oneri generati dalla funzione finanziaria, che afferiscono all’impresa nel suo essere e progredire, e dunque non possono essere specificamente riferiti ad una particolare gestione aziendale o ritenuti accessori ad un particolare costo”. La statuizione della Suprema Corte, come detto, pare basarsi sulla tesi per cui, in forza di apposito inciso, gli interessi passivi sono esclusi dal novero delle spese e degli altri componenti negativi per i quali l’art. 109, c. 5, prevede la deducibilità “se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”. In altri termini, per effetto del richiamo al predetto art. 109 la Cassazione – così statuendo – ha individuato la fonte del principio di inerenza nella predetta norma e per l’effetto ne ha escluso l’applicazione agli interessi passivi in virtù dell’esclusione letterale appena citata. Com’è noto, tale impostazione differisce dal più recente orientamento di legittimità per il quale l’art. 109 si riferisce al “diverso principio dell’indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti”; il principio di inerenza è, invece, inespresso e immanente alla nozione di reddito d’impresa e la sua valutazione impone un giudizio “qualitativo” e non “quantitativo” (inter alia, ordinanze nn. 450 e 3170/2018). A fronte dell’affermazione di tale orientamento, tuttavia, trovano comunque spazio considerazioni sulla proporzionalità e sulla coerenza economica dei costi; non quali fonti del difetto di inerenza, quanto come indici sintomatici della mancanza della stessa (cfr. Cass. nn. 13596/2018 e 33026/2019). Ebbene, negli ultimi anni anche la questione sulla deducibilità degli interessi passivi è stata influenzata da tali considerazioni: in particolare, costituendo l’interesse passivo il “costo” di un’operazione di finanziamento eseguita dal contribuente, è l’eventuale antieconomicità dell’operazione stessa, in molti casi, a determinare l’indeducibilità (totale o parziale) dell’interesse pagato (cfr. Cass. n. 8266/2022). Non mancano tuttavia precedenti giurisprudenziali i quali, adottando l’impostazione giurisprudenziale fatta propria dalla sentenza n. 11642/2023, affermano la deducibilità degli interessi passivi a prescindere da una loro antieconomicità: sotto questo profilo, uno dei precedenti più autorevoli è la sentenza Cass. n. 10501/2014, espressasi favorevolmente al contribuente in una fattispecie in cui l’Ufficio aveva negato la deducibilità degli interessi passivi pagati dalla società su mutui bancari utilizzati per finanziare due controllate, sul presupposto che nel conto economico della controllante non fosse previsto il recupero degli interessi attivi sulle somme “girate” ai soggetti finanziati. Per completezza, si segnala che considerazioni più complesse attengono la deducibilità degli interessi di mora. Sul punto, risultano ancora attuali le statuizioni contenute nelle sentenze della Cassazione nn. 19702/2011 e 33513/2018, dalle quali emerge che se gli interessi di mora contrattualmente stabiliti (per effetto, ad es., di una clausola penale) assolvono “la funzione di determinare preventivamente il risarcimento dei danni in caso di ritardo o di inadempimento”, essi sono deducibili in quanto rilevano come “sostenimento di spese, perdite od oneri a fronte di ricavi o altri proventi”. Al contrario, ove gli interessi di mora rivestano, nel caso specifico, natura sanzionatoria, essi “non possono costituire - al pari di tutte le sanzioni irrogate all'impresa - costi funzionali al mantenimento dell'impresa sul mercato, come tali deducibili ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109” (cfr. Cass. n. 24930/2011). E’ peraltro sulla base di tale principio che si basa il consolidato orientamento della giurisprudenza sull’indeducibilità degli interessi di mora scaturenti dal ritardato pagamento delle imposte (vedasi, da ultimo, Cass. n. 28740/2022). A.P.