Con la sentenza del 25 gennaio 2023, n. 56, la Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Liguria ha definito una controversia in tema di esterovestizione, annullando l’atto impositivo per effetto del mancato assolvimento, da parte dell’Ufficio, dell’onere probatorio su di esso incombente a seguito della novella dell’art. 7 d.lgs. 546/1992 apportata dalla recente Legge n. 130/2022. Con l’occasione, i giudici regionali hanno inoltre espresso interessanti considerazioni sul ruolo delle certificazioni di residenza rilasciate dalle Autorità fiscali estere. Il caso La vicenda origina da una verifica fiscale avente ad oggetto i rapporti insistenti tra l’Aeroporto di Genova e tutte le persone fisiche e giuridiche che avessero corrisposto alla società gestrice dell’aeroporto diritti aeroportuali per vario genere di prestazioni (prestazioni di handling, di imbarco passeggeri, di decollo, di atterraggio, di sosta passeggeri e di ricovero aeromobili). Nell’ambito di tale verifica erano state rilevate delle criticità relative alla società accertata, una società con sede legale in Danimarca che aveva noleggiato un hangar per il ricovero della propria flotta di aerei. Era, infatti, stato rilevato che l’intera flotta della società era stata impiegata stabilmente a servizio di un noto imprenditore genovese e dei manager della multinazionale da questi gestita. L’oggetto sociale della società, formalmente individuato in attività quali l’acquisto, l’importazione e registrazione di aeromobili ai fini del noleggio a terzi, era stato rettificato dai verificatori, ritenendo invece che il core business fosse l’attività di operatore di navigazione aero-commerciale. Per l’effetto, l’oggetto sociale veniva collocato in Italia, posto che tale attività si svolgesse per oltre 183 gg all’anno. Analogamente anche la sede effettiva veniva collocata in Italia, presso il predetto hangar, dove secondo i verificatori venivano espletate “tutte le attività relative alla gestione aziendale, come la conclusione dei contratti di manutenzione, la gestione e il reclutamento delle risorse umane”. Veniva inoltre individuato nel predetto imprenditore il “dominus” della gestione operativa. Le contestazioni si concludevano rilevando, a carico della società, l’ottenimento di un indebito vantaggio fiscale discendente dalla sua formale localizzazione estera (in Danimarca), funzionale a sottrarsi al regime fiscale italiano previsto per le società di comodo. A fronte della notifica degli avvisi di accertamento, la società li impugnava replicando l’erroneità della rettifica dell’attività sociale e che la sede formale danese coincidesse con quella effettiva. All’uopo rilevava che in Danimarca si svolgesse l’attività decisionale ed ivi risultavano collocate le “attività di tenuta delle scritture contabili, redazione dei bilanci societari, redazione dichiarazioni fiscali e altre attività amministrative collegate alle precedenti”. Contestava inoltre che, con il relativo accertamento, l’Ufficio avesse violato gli artt. 49 e 54 TFUE, in tema di libertà di stabilimento, la quale consente alle persone giuridiche costituite in territorio unionale di localizzare le loro attività economiche nel Paese che ritengono più opportuno. Tuttavia, il ricorso era rigettato dalla CTP di Genova e contro tale sentenza la società proponeva appello. La pronuncia La CGT II grado di Genova ha invece accolto le ragioni della società. In particolare, la decisione della Corte verte sul mancato assolvimento, da parte dell’Agenzia delle entrate, dell’onere probatorio previsto per l’esterovestizione. In prima istanza, la Corte aderisce all’orientamento della giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. civ., Sez. V, nn. 33234 e 33235 del 2018 e, più recentemente, id. n. 4463/2022) in forza del quale, in ambito europeo, la contestazione di esterovestizione – oltre che essere fondata sui criteri di collegamento di cui all’art. 73, c. 3, TUIR – deve necessariamente postulare l’abuso della libertà di stabilimento. Sotto questo profilo vengono ripresi i principi già veicolati dalla nota sentenza della CGUE emessa in definizione della causa C-196/04 (c.d. Cadburry Schweppes), per i quali ai fini dell’abuso della libertà di stabilimento rileva unicamente la circostanza che lo stabilimento della società in un altro paese costituisca un’operazione meramente artificiosa, consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica. Al contrario, la localizzazione in un determinato paese dell’Unione per fruire di una legislazione fiscale più favorevole non costituisce di per sé un abuso di tale libertà, sicchè il vantaggio fiscale non costituisce elemento dirimente ai fini della fondatezza dell’abuso né, per l’effetto, della contestazione di esterovestizione. Aderendo a tali principi, l’Agenzia delle Entrate non ha assolto al rigoroso onere probatorio richiesto per la fattispecie di esterovestizione, che postulava la prova che la sede danese costituisse una costruzione societaria di puro artificio e che la sede effettiva si collocasse in Italia. Tale onere probatorio trova una rinnovata definizione per effetto del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. 546/1992, il quale com’è noto impone non solo un rimodulato obbligo istruttorio a carico dell’ente impositore, ma importa anche una diversa strutturazione dell’attività decisionale del giudice. Sotto questo profilo, oltre alle carenze probatorie rilevate con riguardo agli atti dell’Ufficio (colpevole di non aver espresso alcun elemento di valutazione e stima degli elementi raccolti dai verificatori, nonché di avere espresso contestazioni generiche che non trovano adeguato supporto nella documentazione prodotta da entrambe le parti in causa), la Corte di secondo grado ha altresì censurato l’operato dei giudici di prime cure, i quali avevano ignorato completamente le risultanze prodotte dalla società a supporto della sua effettiva costituzione in Danimarca. In considerazione, quindi, del fatto che l’Agenzia non avesse dedotto elementi tali da dimostrare in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive su cui si fondavano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni, la CGT ha accolto l’appello, in base alla valorizzazione dei fatti addotti dalla società e sulla scorta della richiamata novella in tema di adempimento dell’onere della prova. In conclusione, si segnala che la sentenza in commento reca utili considerazioni sulla circostanza per cui l’Ufficio non avesse preso in considerazione il certificato emesso dall’Amministrazione finanziaria danese attestante la residenza fiscale in Danimarca della società. Com’è noto, l’utilizzo di tali certificazioni è invalso in materia di beneficial ownership nei flussi finanziari transfrontalieri, al fine di fruire tanto dei benefici derivanti dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni quanto delle esenzioni da ritenuta previste dalla normativa europea (recepite in Italia dagli artt. 26quater e 27bis del d.P.R. 600/1973, dedicati, rispettivamente a interessi/canoni e dividendi). Con riguardo all’utilizzo di tali certificazioni nell’ambito di contestazioni di esterovestizione, la Corte illustra che “sull’effettiva valenza delle suddette certificazioni all’interno di un altro Stato membro si sono già pronunciati i Giudici della Corte di Cassazione. Con la sentenza del 3 febbraio 20212, n. 1553 i Giudici di legittimità (…) hanno ritenuto che una valida prova dell’effettiva residenza (…) potesse rinvenirsi nella certificazione rilasciata dalla Autorità fiscale estera (…), al fine di negare l’esterovestizione della società. Sul punto vedi sentenza n. 6579 depositata il 27 novembre 2017, dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano (…), i Giudici milanesi hanno affermato che i certificati rilasciati dall’autorità fiscale estera, in virtù dello scambio automatico di informazioni e delle convenzioni contro le doppie imposizioni, hanno valenza probatoria vincolante. E, se l’Agenzia delle Entrate contesta l’esterovestizione di una società per non esserne la beneficiaria effettiva, dovrebbe chiedere chiarimenti al suo omologo estero”. A.P.