L’art. 27, c. 3, del DPR n. 600/73, nel prevedere l’applicazione di una ritenuta dell’11% in luogo dell’ordinaria aliquota del 27% solo sugli utili corrisposti a fondi pensione UE o appartenenti allo Spazio economico Europeo (SEE), configura un’indebita restrizione della libera circolazione dei capitali nella parte in cui non estende tale trattamento fiscale anche ai fondi pensione residenti negli Stati Uniti d’America. Lo afferma la Suprema Corte con sentenza n. 25963 del 2 settembre 2022. Un fondo pensione statunitense (“Fondo”) negli anni tra il 2008 e il 2009 percepiva dividendi da società italiane soggetti a ritenuta con aliquota del 27% ai sensi dell’art. 27, c. 3, del Dpr n. 600/73 ovvero con aliquota del 15% in forza dell’art. 10 della Convenzione Contro le doppie imposizioni. Provveduto al versamento, il Fondo pensione domandava all’Amministrazione finanziaria il rimborso del differenziale tra l’imposta dallo stesso sostenuta e l’aliquota dell’11% applicabile invece ai dividendi distribuiti da società italiane a fondi UE o appartenenti allo SEE. A parere del Fondo, infatti, tala diversità di trattamento fiscale costituiva un’indebita restrizione della libertà di circolazione dei capitali di cui all’art. 63 TFUE. A fronte del silenzio-rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria, il Fondo proponeva ricorso. Nei primi due gradi di giudizio, il Fondo rimaneva soccombente. In particolare, secondo i giudici di merito non si sarebbe configurata alcuna discriminazione e ciò in forza dell’art. 65 TFUE. Tale norma, infatti, ammette che vi sia diversità di trattamento tra i contribuenti a fronte del diverso regime impositivo cui i fondi sono rispettivamente assoggettati nel luogo di residenza. In particolare, i fondi italiani seguono un modello di tassazione caratterizzato da imposizione dei rendimenti realizzati e delle prestazioni erogate (c.d. EET), mentre i fondi USA seguono un modello di tassazione che individua il momento impositivo solo all’erogazione della rendita (c.d. EET). La Corte di Cassazione accoglieva invece le ragioni del contribuente sancendo l’illegittimità della normativa interna rispetto al principio di libera circolazione dei capitali in assenza di alcuna causa idonea a giustificare tale disparità. In primis, non vi sarebbe alcun pericolo per l’esercizio dei controlli fiscali da parte dell’Amministrazione finanziaria italiana, poiché in forza dell’art. 26 della Convenzione Contro le doppie imposizioni Italia-Usa, sussiste un obbligo reciproco di scambio di informazioni fra le autorità amministrative competenti. Inoltre, contrariamente a quanto affermato dalle Corti di merito, la differenza di regimi impositivi non vale a motivare una disparità di trattamento, dal momento che un regime impositivo di tipo EET è previsto anche da Stati appartenenti all’UE cui per legge si applica la ritenuta all’11% ai sensi della normativa italiana. La pronuncia, certamente condivisibile, offre lo spunto per riflettere sul rapporto tra fonte convenzionale e diritto interno, nonché sul tema della discriminazione e del rispetto delle libertà fondamentali sancite dal diritto dell’Unione. Quanto al primo aspetto, il ragionamento della Suprema Corte sembra consentire l’assunzione secondo cui il regime convenzionale perderebbe rilievo rispetto al diritto interno. Se infatti, in virtù della libera circolazione dei capitali, è consentito al contribuente estero di domandare non l’applicazione del regime convenzionale (15%), ma l’applicazione del più favorevole regime interno (11%), non ci sarebbe ragione per attenersi al diritto dei trattati bilaterali. Per ciò che concerne, invece, il tema della discriminazione, da un lato l’art. 18 TFUE sancisce che “è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità” e dall’altro l’art. 63 TFUE dispone che “sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”. Se quindi la parità di trattamento è un principio fondante del diritto comunitario, un trattamento differenziale può essere ammesso solo per motivi imperativi di interesse generale ovvero in presenza di situazioni oggettivamente incomparabili. Nel tempo, gli Stati hanno ritenuto legittima una differenziazione di trattamento fiscale qualora vi fosse un pericolo per l’accertamento dell’avvenuta imposizione nello Stato in cui risiede il percettore del reddito, laddove non fosse garantito lo scambio di informazioni tra autorità fiscali. Invero, tale giustificazione può ritenersi superata nella maggior parte delle fattispecie anche Extra Ue posto che ormai lo scambio di informazioni è previsto anche dalle Convenzioni bilaterali concluse con gli Stati esteri. G.G.