L’onere della prova sul beneficiario effettivo estero grava sul sostituto d’imposta residente che abbia applicato le ritenute convenzionali

31 Agosto 2021

Abstract

Con l’ordinanza del 22 giugno 2021, n. 17746, la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi sulla tematica del beneficiario effettivo, con particolare riguardo agli adempimenti incombenti sul sostituto d’imposta residente in Italia in sede di applicazione della ritenuta convenzionale e sull’onere probatorio su di esso ricadente in caso di accertamento.

La questione sottoposta alla Suprema Corte verteva sul parziale recupero a tassazione degli importi corrisposti, a titolo di royalties per l’uso di opere dell’ingegno, dalla contribuente residente ad una società con sede in Olanda. L’Amministrazione finanziaria riteneva doversi applicare la ritenuta prevista dall’art. 25 del d.P.R. 600/73. La contribuente aveva invece applicato la ritenuta del 5%, in forza dell’art. 12 della Convenzione contro le doppie imposizioni siglata tra Italia e Paesi Bassi (“Convenzione”).

La contribuente era stata soccombente in primo grado. Tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale (“CTR”) della Lombardia aveva accolto l’appello contro la decisione di prime cure. L’Agenzia delle Entrate aveva quindi proposto ricorso per Cassazione.

L’Agenzia delle Entrate, in particolare, deduceva l’erroneità della decisione impugnata, laddove aveva ritenuto che la società olandese fosse “beneficiaria effettiva” delle royalties corrisposte. Secondo l’Ufficio, infatti, la Commissione non aveva effettuato alcuna verifica in merito alla sussistenza dei presupposti utili ad attribuire tale qualifica, la cui prova gravava sulla contribuente.

Dal canto suo, la contribuente eccepiva di aver svolto tutti gli adempimenti utili per accertare che la società percipiente fosse la beneficiaria effettiva degli importi pagati. A tal fine, aveva in particolare acquisito la certificazione fiscale rilasciata dall’Amministrazione finanziaria olandese, attestante la residenza del percipiente nei Paesi Bassi e l’assenza di una sua stabile organizzazione in Italia, nonché un’autocertificazione attestante la propria assoggettabilità ad imposta sui redditi delle società senza possibilità di alcuna esenzione e la sua qualifica di beneficiario effettivo dei canoni ai sensi dell’art. 12, par. 2, della Convenzione. È pur vero che l’attestazione di beneficiario effettivo dei proventi de quibus non proveniva dall’Autorità fiscale olandese, ma era meramente dichiarata dal percipiente sulla scorta della siffatta autocertificazione.

Investita della questione, la Corte di Cassazione evidenzia preliminarmente come la qualifica di beneficiario effettivo presuppone la “reale disponibilità giuridica ed economica del provento percepito”. In particolare, conformemente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (cd. “sentenze danesi”[1]) tale qualifica “deve essere accertata, in fatto, dal giudice di merito, sul trattenimento ed autonomo impiego dei dividendi medesimi ovvero sulla loro traslazione alla capogruppo residente nello Stato estero”.

Per quanto concerne l’onere della prova, la Corte di Cassazione ha tuttavia evidenziato che “poiché la società italiana è il sostituto d’imposta che ha operato la ritenuta convenzionale, non può che gravare su di essa l’onere di provare la qualità di “beneficiario effettivo” della società destinataria dei canoni”. Nondimeno, la Corte ha affermato che la produzione, da parte della contribuente, del certificato di residenza fiscale rilasciato dall’Amministrazione finanziaria dello Stato del percettore sia “irrilevante” ai fini dell’assolvimento di siffatto onere probatorio.

Quanto invece alla posizione dell’Ufficio, secondo i giudici di legittimità, incombe su di esso l’onere di contestare espressamente i fatti affermati dal contribuente, essendo la sua posizione processuale espressa dall’atto impugnato (i.e. l’avviso di accertamento). Ciò significa, in altre parole, che graverà sull’Ufficio un onere di contestazione solo allorché il sostituto d’imposta abbia già adeguatamente assolto alla prova che il soggetto estero percettore abbia la disponibilità giuridica ed economica degli importi corrisposti.

Per questi motivi, la Corte ha accolto il ricorso formulato dall’Agenzia delle Entrate, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, per un nuovo esame di merito.

In merito alla sentenza in esame, può essere opportuno effettuare alcune riflessioni.

In linea di principio, deve considerarsi condivisibile l’assunto per cui è il soggetto pagatore a doversi assumere l’onere di dimostrare la qualifica di beneficiario effettivo del percettore. Tale conclusione è peraltro conforme al principio, più volte confermato dalla giurisprudenza tributaria, di “vicinanza alla prova”. In base a tale principio, l’onere della prova grava sul soggetto (a seconda dei casi, contribuente o Ufficio) che, nell’ambito della propria normale attività, si trova nella situazione di poter avere più facilmente accesso ai documenti idonei a provare i fatti di causa. Trattasi di regola di buon senso, funzionale a garantire la celerità delle operazioni economiche anche a tra soggetti residenti in Stati diversi.

Si pone tuttavia il problema di capire quale realmente sia il novero dei controlli esperibili, da parte di un contribuente residente, nei confronti di un’entità estera, percettrice del provento. L’Amministrazione finanziaria italiana, così come la giurisprudenza, ha sempre evitato di operare una tipizzazione degli adempimenti richiesti al sostituto d’imposta, rimettendosi ad un principio generale di ordinaria diligenza del contribuente. Questi deve quindi operare le proprie indagini nei limiti di quanto sia ragionevolmente esigibile ad un operatore economico privato. A tal fine, occorre avere riguardo ad una molteplicità di fattori che nel loro insieme concorrono a dimostrare la coerenza degli asset impiegati dal percettore con l’attività svolta.

Tanto premesso, occorre comprendere per quale motivo la Suprema Corte, in questa sede, abbia totalmente – e per giunta, immotivatamente – escluso qualsivoglia rilevanza alla dotazione, da parte del sostituto d’imposta, della certificazione di residenza fiscale rilasciata dall’Autorità olandese (nonché dell’ulteriore autocertificazione di beneficiario effettivo).[2] . Se si considera, infatti, che in svariati precedenti giurisprudenziali[3] la dotazione della certificazione rilasciata dall’autorità estera è stata considerata addirittura sufficiente ed esauriente ai fini delle indagini sul percettore per l’applicazione dei benefici convenzionali, la diligenza richiesta al sostituto d’imposta deve modularsi anche con riferimento all’affidamento maturato rispetto a tali indirizzi giurisprudenziali, nonché rispetto ai principi di leale collaborazione e mutuo riconoscimento delle rispettive certificazioni, che dovrebbero sussistere tra gli Stati firmatari di una Convenzione.

Da quanto sopra, si desume come il sopramenzionato principio di vicinanza alla prova deve essere assolutamente declinato in concreto, tenendo conto delle caratteristiche proprie della fattispecie. Ciò al fine di evitare che sul contribuente venga a gravare un onere insostenibile. In molti casi, infatti, il contribuente incontra notevoli difficoltà nel reperire le informazioni necessarie. In tali ipotesi, l’Amministrazione dovrebbe forse supplire alle predette difficoltà. È vero che non si può richiedere all’Amministrazione finanziaria di operare un controllo preventivo sul percettore estero. È tuttavia altresì vero che, nell’ambito della cooperazione internazionale, l’Amministrazione finanziaria dispone di strumenti molto più penetranti di quelli dei quali dispone il contribuente.

In conclusione, all’esito delle considerazioni sopra svolte, risulta molto più degna di condivisione la sentenza cassata, emessa dalla CTR Lombardia nel precedente grado di merito[4] e riportata per estratto nell’arresto in commento[5], allorché, nella valutazione della diligenza concretamente utilizzata dal sostituto d’imposta residente, mette altresì in rilievo la complessiva illogicità della distribuzione dell’onere probatorio gravante su entrambe le parti del giudizio, segnalando come, a differenza della parte privata, l’Ufficio ha comunque a disposizione gli strumenti di cooperazione transfrontaliera per accertarsi che il percettore sia il beneficiario effettivo. Al contrario, le argomentazioni dei giudici di legittimità non tengono minimamente conto di ciò, né sotto il profilo di ciò che sia concretamente esigibile da parte del contribuente, né prendendo atto del fatto che, in ossequio all’impostazione assunta, a quest’ultimo viene imposto un onere probatorio di gran lunga più gravoso di quello riservato all’Ufficio, nonostante l’evidente disparità di strumenti di verifica tra le parti del contenzioso tributario.

A.P.


[1] I.e. CGUE, sentenza del 26 febbraio 2019 rese nelle cause riunite C‑115/16, C‑118/16, C‑119/16 e C‑299/16.

[2] A tal proposito, è pur vero che l’Agenzia delle Entrate ha predisposto, con provvedimento del Direttore del 10 luglio 2013, appositi modelli che i soggetti non residenti possono utilizzare per ottenere il rimborso dell’imposta versata in misura superiore a quella convenzionale o, in alternativa, l’applicazione diretta della ritenuta convenzionale. Nondimeno, tali modelli sono stati elaborati al solo fine di “facilitare l’erogazione del rimborso o l’applicazione della aliquota ridotta, potendo il beneficiario effettivo attestare l’accesso ai benefici convenzionali anche attraverso modelli alternativi, predisposti dallo stato di residenza, che contengano l’attestazione di residenza ai fini tributari nel Paese estero, la dichiarazione di esistenza o meno di una stabile organizzazione (se si tratta di impresa) o di base fissa (se si tratta di professionista) in Italia (cui siano riconducibili i redditi in relazione ai quali si chiede il rimborso dell’imposta) ed infine la dichiarazione di esistenza di eventuali altre specifiche condizioni previste dalla Convenzione. Per maggiori approfondimenti si rinvia al sito dell’Agenzia delle Entrate.

[3] Cfr., ex plurimis, CTR Lazio, 24 maggio 2018, n. 3535; CTR Piemonte, 4 maggio 2012, n. 28; CTR Lombardia, 24 febbraio 2012, n. 16.

[4] CTR Lombardia (Sez. staccata Brescia), Sez. LXV, 29 giugno 2015, n. 2897 (Rel. Fracascio).

[5] Ci si riferisce segnatamente al seguente estratto: “deve ritenersi pertanto corretto il comportamento del contribuente che ha assunto la certificazione fiscale rilasciata dal paese estero che ha dichiarato la sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti per beneficiare di regimi fiscali di favore e l'Ufficio non ha seguito le opportune verifiche atte a dimostrare il proprio assunto limitandosi a chiedere la prova della qualifica al sostituto d'imposta e non al sostituito come sarebbe stato opportuno fare mediante gli strumenti della cooperazione transfrontaliera”.


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