Sezioni Unite, il credito IVA è contestabile in ogni tempo: irrilevante la decadenza dell’Ufficio dal potere accertativo

9 Agosto 2021

Abstract

Le Sezioni Unite, con sentenza pubblicata in data 29 luglio 2021, n. 21765, hanno stabilito che l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente in dichiarazione anche ove sia intervenuta la decadenza dall’esercizio del potere di accertamento, ovvero di rettifica dell’imponibile e dell’imposta dovuta. Il principio si applica anche all’IVA.

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Il caso

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata in materia di rimborso dell’eccedenza detraibile dell’IVA, stabilendo che l’Amministrazione finanziaria ha il potere di contestare il credito esposto in dichiarazione, ove non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta, anche oltre la scadenza dei termini di legge previsti per l’esercizio del potere di accertamento o rettifica dell’imponibile e dell’imposta dovuta.

Si tratta, invero, di un tema già affrontato dalle stesse Sezioni Unite che, con la pronuncia n. 5069/2016, aveva statuito in senso analogo, sia pur solo in materia di imposte sui redditi. La sentenza in commento, pertanto, merita particolare attenzione in quanto estende espressamente il predetto principio all’ambito dell’imposta sul valore aggiunto.

Per esporre in maniera concisa i fatti di causa da cui è scaturita la statuizione in commento, nel caso di specie una banca aveva acquisito dal fallimento di una s.a.s. un credito IVA maturato nel 1998, richiesto a rimborso dieci anni dopo, ai sensi dell’art. 30, co. 2, d.P.R. n. 633/1972, per intercorsa cessazione dell’attività sociale.

All’istanza di rimborso presentata dalla contribuente l’Agenzia delle Entrate opponeva un diniego, successivamente impugnato, che incentrava le proprie difese sull’intercorsa decadenza dell’Ufficio dal termine previsto ai fini dell’accertamento dall’art. 57 del d.P.R. n. 633/1972, tuttavia ottenendo pronunce sfavorevoli tanto in primo quanto in secondo grado di giudizio.

La contribuente proponeva, pertanto, ricorso per cassazione incentrando le proprie difese (per quanto qui di interesse) sull’asserita violazione e falsa applicazione degli artt. 30, 30-bis, 54 e 57 del d.P.R. n. 633/1972, nonché degli artt. 113 e 115 c.p.c., laddove il giudice di appello aveva escluso l’applicabilità al caso di specie dei termini decadenziali sopra richiamati.

La pronuncia

Con ordinanza interlocutoria, la Suprema Corte rilevava come il tema in oggetto fosse già stato affrontato e risolto dalla pronuncia n. 5069/2016 delle Sezioni Unite (cit. supra), ma con esclusivo riferimento alle imposte sui redditi. Pertanto sollecitava la verifica della tenuta del principio di diritto elaborato dalla citata sentenza, altresì chiedendo alle S.U. di statuire in merito alla possibilità di estenderne la portata all’ambito IVA.

L’art. 57 del d.P.R. n. 633/1972, infatti, prevede al terzo comma la differibilità, a determinate condizioni, del termine decadenziale per accertamenti e rettifiche. Al riguardo, rileva la Suprema Corte, con riferimento all’IVA è maturato un “orientamento distonico” rispetto al principio enucleato dalle S.U.: secondo tale orientamento, infatti, il termine decadenziale sarebbe riferibile, in linea generale e salve contestazioni relative ai fatti costitutivi del diritto al rimborso, non alle sole attività di accertamento e rettifica, ma anche alle attività di controllo dell’Ufficio circa la pretesa di rimborso.

Richiamati i precedenti orientamenti contrastanti, dunque, le Sezioni Unite hanno rievocato il principio di diritto espresso con la sentenza n. 5069/2016, secondo cui l’Amministrazione può opporre un diniego all’istanza di rimborso fino a quando il contribuente possa vantarlo. Tale impostazione, basata sulla formula quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum (perpetuità dell’eccezione declinabile nei termini per cui “al cospetto dell'inerzia dell'amministrazione, chi vanti una pretesa al rimborso deve ricorrere al giudice e, a fronte della contestazione del fisco, deve provare i fatti costitutivi del diritto vantato”) espone tuttavia il fianco a un duplice ordine di critiche: (i) l’asimmetria che verrebbe a determinarsi tra le posizioni, rispettivamente, del contribuente (soggetto a ferrei termini decadenziali per l’esercizio del diritto al rimborso) e dell’Ufficio (che a tali decadenze non sarebbe invece sottoposto), nonché (ii) l’esposizione del contribuente all’azione erariale per un periodo di tempo invero indeterminato, con il conseguente vulnus del principio di certezza del diritto.

Si tratta di critiche certamente non banali e fondate su un’impostazione corretta dei problemi in campo. Ciononostante, le Sezioni Unite le respingono entrambe.

Secondo i giudici di legittimità, il credito che – come nel caso oggetto della controversia in esame – sorga dal coacervo delle poste detraibili prevalenti sul debito, ergo eccedenti l’imposta liquidata, “esiste in quanto ne sussistono i fatti generatori, sicché non è sufficiente che sia esposto in dichiarazione, né è necessario che sia accertato dall’amministrazione”. Ne consegue che la mera esposizione del credito in una dichiarazione relativamente alla quale siano scaduti i termini per l’accertamento non determina l’intangibilità di un credito, che potrebbe anche essere fittizio per carenza dei fatti costitutivi: dal che discende, a sua volta, che l’inerzia dell’Amministrazione che non eserciti i poteri di controllo nei termini di legge non produce “alcun effetto accertativo del credito vantato, che può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato”. L’inerzia, infatti, non si traduce in un implicito riconoscimento del credito, al contrario configurandosi come rifiuto tacito dell’Amministrazione, impugnabile ai sensi dell’art. 21, secondo comma, del D.Lgs. n. 546/1992.

Pertanto l’Amministrazione può contestare in ogni tempo la sussistenza e la fondatezza del diritto al rimborso non derivante dalla sottostima dell’imposta dovuta; per parte sua, invece, il contribuente può far valere il proprio diritto eventualmente anche in sede contenziosa, assumendosene l’onere probatorio. Tale facoltà vanificherebbe, secondo il Supremo consesso di legittimità, ogni paventata asimmetria tra le parti del rapporto tributario.

Le precisazioni delle Sezioni Unite, a dire il vero, non sembrano idonee a fugare ogni dubbio in proposito. Infatti, anche a voler trascurare i pur fondamentali principi di lealtà e collaborazione tra Fisco e contribuente, su cui si basa tutta la “dottrina della compliance” sviluppatasi negli ultimi anni, si ritiene che la previsione normativa di precisi termini decadenziali rappresenti una garanzia per il contribuente, nella misura in cui circoscrive l’azione dell’Ufficio entro limiti temporali definiti, conchiusi e idonei a dare stabilità semel pro semper al rapporto tributario. Ciò che, a ben vedere, costituisce altresì un’applicazione pratica del principio di certezza del diritto.

Tuttavia anche quest’ultimo principio è fatto salvo dal Supremo consesso di legittimità. Secondo la pronuncia in commento, infatti, la facoltà, pacificamente riconosciuta al contribuente, di dilazionare nel tempo l’istanza di rimborso mediante il riporto a nuovo del credito nelle annualità successive a quella di maturazione comporta che la posizione fiscale del contribuente non è affatto posta in discussione in un arco temporale indeterminato: “la parte dilaziona nel tempo l’istanza di rimborso, preferendo il riporto a nuovo; la scelta conforma anche l'onere di conservazione delle scritture contabili e dei documenti giustificativi del credito (si veda Cass. n. 8500/21, cit.); e comunque il silenzio rifiuto opposto all'istanza è impugnabile e apre all'accertamento giudiziale e alla conseguente definizione del rapporto”. Pertanto, secondo i giudici, non si determina alcuna lesione della certezza del diritto.

Il profilo di maggior rilievo della decisione in commento, tuttavia, è offerto dalla ritenuta estendibilità del principio di diritto formulato con la sentenza n. 5069/2016 anche all’imposta sul valore aggiunto.

Secondo le Sezioni Unite la semplice esposizione del credito alla possibilità di contestazione, in ogni tempo, da parte dell’Ufficio non arreca alcun pregiudizio al principio di neutralità dell’IVA: tale possibilità, infatti, è volta a scongiurare il riconoscimento di crediti inesistenti per carenza dei relativi fatti costitutivi, inesistenza che – questa sì – si porrebbe in palese conflitto con il principio di neutralità. È il caso del credito vantato dalla ricorrente, fondato su un’eccedenza indetraibile in quanto scaturente (come accertato nella pronuncia di secondo grado) da poste derivanti da operazioni estranee all’attività d’impresa, ed anzi ab origine qualificate dall’Ufficio in termini di “vere e proprie truffe” idonee a inficiare l’intera attività sociale.

Se è vero, dunque, che il principio di neutralità è posto a presidio del diritto del soggetto passivo a non sopportare il peso dell’imposta, dovuta o assolta, nel contesto delle proprie attività economiche imponibili (cfr. § 9.1: “Le poste detraibili derivano dall'applicazione stessa del sistema comune dell'iva, affinché l'iva dovuta o assolta non sia sopportata dal soggetto passivo nell'ambito delle proprie attività economiche soggette all'imposta, garantendo così la neutralità dell'imposizione fiscale”), è altrettanto innegabile che il medesimo principio “non comporta che si consenta la fruizione di un credito iva non dovuto, perché scaturente da operazioni diverse da quelle che consentono la detrazione”.

Tutto ciò premesso, dunque, contraddetta ogni possibile lesione di principi tanto unionali quanto costituzionali, la Suprema Corte a Sezioni Unite ha sancito il seguente principio di diritto: “In tema di rimborso dell’eccedenza detraibile di iva, l’amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente in dichiarazione, che non derivi dalla sottostima dell’imposta dovuta, anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del potere di accertamento o di rettifica dell’imponibile e dell’imposta dovuta, senza che abbia adottato alcun provvedimento”.

F.N.

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