Una società deve considerarsi residente fiscalmente in Italia se ivi ha la propria “sede effettiva”: questo è il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione nella pronuncia in commento. La vicenda trae origine da alcuni avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di una società avente sede legale in Germania. In particolare, l’Amministrazione aveva contestato al contribuente un’ipotesi di “esterovestizione societaria”, basandosi su una serie di elementi, tra cui: La società si era opposta, deducendo come principale motivo di impugnazione la violazione dell’articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 ("TUIR") e dell’articolo 48 del Trattato CEE, nonché dell’articolo 4, comma 3, della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Germania, per non avere il giudice di appello tenuto conto che la condizione per considerare una società come fiscalmente residente in Italia è quella per cui la stessa abbia la sede legale o la sede amministrativa, oppure l’oggetto principale della propria attività nel territorio dello Stato “per la maggior parte del periodo di imposta”. Inoltre, secondo la ricorrente, il concetto di “esterovestizione” si sarebbe potuto rinvenire solo in caso di una costruzione di “puro artificio”, avente l’unico scopo di trasferire alla società straniera redditi promananti da attività svolte, in realtà, nel territorio nazionale, con l’obiettivo di ottenere un vantaggio fiscale. Sul punto, i giudici di legittimità osservano che sia secondo la normativa convenzionale, sia secondo quella domestica la tassazione in Italia del reddito delle società si fonda sul parametro della loro sede “effettiva”. Nello specifico, l’articolo 4, paragrafo 3, della Convenzione stipulata tra Italia e Germania (che riprende in maniera pressoché analoga la speculare disposizione del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni) dà prevalenza al criterio della “sede di direzione effettiva” (“place of effective management”), stabilendo che “quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva”. Tale criterio, dopo la modifica al Modello OCSE operata nel 2017, non si applica in via automatica, ma al termine di una valutazione di taluni elementi di fatto quali il luogo in cui la società è stata costituita, il luogo dove sono regolarmente tenute le riunioni del Consiglio di amministrazione, il luogo dove gli amministratori delegati esercitano le proprie funzioni, il luogo dove i dirigenti esercitano il day-to-day management oppure la legislazione applicabile alla società stessa. In Italia, invece, ai sensi dell’articolo 73, comma 3, del TUIR, si considerano residenti le società e gli enti che hanno nel territorio dello Stato, per la maggior parte del periodo di imposta, alternativamente, o la sede legale, o la sede dell’amministrazione, oppure ancora l’oggetto principale dell’attività svolta. Per la Cassazione, la nozione domestica di “sede effettiva” deve di fatto essere assimilata a quella di “sede dell’amministrazione”, intesa come il luogo in cui viene svolta in via effettiva l’attività di gestione, vale a dire il luogo in cui l’organo amministrativo prende le sue decisioni e/o forma la sua volontà. Si tratta di un parametro il cui riscontro è da effettuarsi con criteri sostanzialistici atti a indagare chi amministra effettivamente, e non chi è preposto formalmente a tale attività. Infine la Corte, dopo un breve excursus sul rapporto tra la nozione di esterovestizione e quella di libertà di stabilimento ai sensi del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, rammenta che anche a livello unionale l’individuazione della “sede effettiva” (da intendere come il luogo in cui vengono adottate le “decisioni essenziali” concernenti la direzione generale dell’ente societario) va accertata sulla base di elementi di fatto quali la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e, più comunemente, quello in cui si adotta la “politica generale” di tale società. Inoltre, possono essere presi in considerazione anche ulteriori elementi quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione dell’assemblea generale, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie. Alla luce di quanto sopra esposto, dunque, i giudici di legittimità arrivano a concludere che la “sede effettiva” di una società “non si identifica con il luogo nel quale essa abbia uno stabilimento, paghi le retribuzioni dei dipendenti, riceva o consegni merci, essendo invece necessario che in quel sito si accentrino di fatto i poteri di direzione e di amministrazione dell’azienda stessa ancorché diverga da quello in cui si trovano i beni aziendali e nel quale venga svolta l’attività imprenditoriale”, precisando che per “sede effettiva” si debba invece intendere “il luogo in cui abbiano concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente, e dove operino i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti con poteri direttivi, ossia il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente stesso”. Nel caso di specie, la Cassazione conferma la valutazione operata dal giudice di merito secondo cui, in base alla valutazione degli elementi sopra richiamati, la sede effettiva della contribuente – e, quindi, anche la sua residenza fiscale – era da considerarsi in Italia, e non in Germania. RC